Le domande esplicite o tra le righe che mi sembra aver sentito riecheggiare tra le nostre ultime conversazioni, e scusate se banalizzo o esemplifico, sono:
-Questione sociale: Che cosa significa essere femministe nel 2008?
-Questione di immaginario e questione sociale: Come faccio a creare un kollettivo che non sia vetero o addirittura demodè?
Le prime due parlano di noi, la terza anche, ma è rivolta soprattutto all’esterno. Provo a rispondere. Ho sempre creduto che questo spazio più che lavorare su un profilo “politico” dovesse essere luogo di “sensibilità” collettiva. Dove per sensibilità intendo narrazione, esperienza, idea, follia, intuizione, pensiero, azione e tanto altro. Con un unico elemento comune che attraversa tutto, che è l’eliminazione della censura, chiaramente non quella esterna , ma quella sorta di autocensura che spesso in automatico inneschiamo per paura di essere socialmente e storicamente scorrette. In questo senso il mio essere senza filtri davanti a questa esperienza mi fa affermare con una certa fierezza il mio essere “femminista”. Credo fortemente nell’astoricità della scorrettezza di pensiero ma non in quella puramente autocelebrativa, nella messa in discussione della tradizione e nella decostruzione del lineare (vedi : le vertigini)
Se il femminismo non è solo (e non lo è) una form(a)zione politica con una sua fissità temporale, oggi noi non lo rifondiamo attraverso il nostro Kollettivo ma lo incarniamo e lo rappresentiamo rispetto a quello che siamo. E siccome nessuno di noi è vetero (attenzione a Cinzia…sto scherzando!!!) né tanto meno demodè il pericolo di mettere in piedi un progetto con queste caratteristiche è fuori discussione.
Era il lontano(ormai) 2001 quando un’intera generazione a Genova rivendicava in una sola parola “uguaglianza” fra tutti gli uomini e tutte le donne del mondo. In quell’occasione compresi quanto fosse inadeguato il mio considerarmi “comunista”. Come se per contribuire ad una grande trasformazione fosse necessario avere una tessera o definirsi in un modo. Probabilmente Polly Jane Harvey non si è mai definita femminista (non lo so) ma quello a cui ho assistito qualche sera fa sul palco dell’Auditorium di Roma lo era senza ombra di dubbio.
Qualcuna di voi in questo momento mi sta maledicendo per l’invidia ma vi assicuro che sono molto dispiaciuta di non aver potuto condividere questo piccolo viaggio con almeno una di voi. Lì ho respirato un’essenza che riusciva ad essere contemporaneamente metafisica e pratica. Semplicemente perché l’arte - che non è altro che trasposizione e sublimazione dell’esistenza - è così: postmoderna.
Amo i Radiohead ma mi diverte da morire cantare a squarciagola per le vie del centro insieme alla mia amica Danila le canzoni di Tiziano Ferro.
Wenders mi ha cambiato la vita ma Sapore di mare 1 e 2 li rivedo tutte le volte che li mandano in televisione e se li proiettassero al cinema ci andrei (mi elettrizza sia la storia di Marina Suma con Jerry Calà che quella di Isabella Ferrari con Massimo Ciavarro per non parlare del fatto che quest’ultimo proprio in questo film si innamora nella realtà di Eleonora Giorgi).
Andrea Pazienza, Hugo Pratt e Guido Crepax ,per tutta la vita ,ma non posso rinunciare ai miei pornomanga giapponesi, a Julia e al mio antieroe John Doe. Oppure vogliamo parlare di Persepolis o della puntata di Lady Oscar quando André gli strappa la camicetta e ancora di Abel quando riscalda Georgie con il calore del suo corpo.
E poi chi cazzo lo ha detto che le droghe leggere sì e quelle pesanti no? Forse chi non ha mai provato la metanfetamina MDMA! Chiaramente con moderazione… E comunque ribadisco l’alcool è la via al Socialismo reale.
Insomma sono caduta nel tranello del “ma anche”. Non è che per caso invece di essere femminista sono del Pd?!?!?!
Vi prego ditemi di no.