Genealogia dell'aborto

di Ida Dominijanni


In attesa di veder svanire - speriamo - l'incubo Sarah Palin, inedita figura di parassita antifemminista della rivoluzione femminista che pretenderebbe con una mossa sola di legittimare un mito neo-tradizionalista della madre e di delegittimare la libertà di scelta femminile sull'aborto, diamo uno sguardo a un agile e prezioso libro di cecilia D'Elia appena uscito per Ediesse, che sotto il titolo «L'aborto e la responsabilità» ricostruisce quattro decenni di dibattito pubblico sull'aborto nel nostro paese. Cecilia D'Elia, attualmente vicepresidente e assessora alla cultura della Provincia di Roma, è una femminista di seconda generazione, formatasi politicamente e intellettualmente negli anni Ottanta, che ha sempre praticato una relazione genealogica forte e dichiarata con «le madri» degli anni settanta. Ed è questa relazione che a mio avviso struttura il suo libro, che infatti si segnala - fra i molti che sull'aborto continuano ad uscire come se il tema lo portasse ogni volta la cicogna, il presidente del consiglio di turno o «il Foglio» - per il fatto di restituirgli invece la sua origine vera. Che è un'origine radicata nella presa di coscienza femminista degli anni Settanta. Un'origine che tanto ne condiziona i successivi sviluppi, quanto dai successivi sviluppi viene continuamente rimossa. Cecilia - che le lettrici del «manifesto» conoscono per i suoi interventi sul giornale in materia di procreazione - lo dichiara con chiarezza: «Il libro nasce dal desiderio di non perdere un patrimonio che donne di generazioni diverse hanno prodotto e che rischia di essere offuscato dal discorso pubblico. Sulla grande stampa, salvo rare eccezioni, si discute di aborto come se le donne non ci fossero e come se non avessero detto nulla di significativo. Si pontifica di morale non dando nessun valore alla parola femminile, come se fosse irrilevante 'chi' abortisce». L'abbiamo visto bene, l'ultima volta, pochi mesi fa, durante la campagna teo-cons per la moratoria sull'aborto e per la revisione delle norme sull'aborto terapeutico. Ma lo vediamo bene anche tutte le volte che, da sinistra, la questione aborto viene declinata solo nei termini riduttivi della laicità dello stato e della difesa di un diritto. Perciò, come scrive D'Elia, «ritornare all'origine può aiutarci a a uscire da una rappresentazione non veritiera del dibattito in corso, schiacciato sull'imperativo della difesa della vita, e può mostrarci gli elementi di debolezza di una risposta a favore della scelta delle donne tutta giocata sulla laicità, sulla grammatica dei diritti e sul rischio di un ritorno alla triste realtà dell'aborto clandestino».All'origine, infatti, ben altra fu, nella presa di parola femminile, la complessità e la ricchezza del discorso. Sintomo di uno scacco nel vissuto della sessualità e della relazione con l'altro, l'aborto era solo un capitolo di una più vasta materia che comprendeva la distinzione fra sessualità e maternità, l'analisi del desiderio di essere o di non essere madre, il cambiamento del rapporto con gli uomini, l'elaborazione di un linguaggio autonomo delle donne su se stesse e sull'altro. Tutt'altro campo discorsivo rispetto a quello consentito dal fronte politico «progressista» dell'epoca, che in casa radicale e socialista si limitava a parlare di un diritto civile, e in casa catto-comunista, peggio ancora, di una «piaga sociale» da combattere a suon di asili nido e servizi sociali. Attraverso l'analisi dei testi del femminismo radicale (e dei cambiamenti intervenuti nelle organizzazioni femminili più tradizionali come l'Udi che radicali non erano), Cecilia ricostruisce il discorso femminista in tutte le sue eccedenze dal discorso politico e da quello giuridico. Rilegge il dibattito parlamentare sulla 194 e il carattere compromissorio di quella legge, oggi diventata una trincea difensiva ma allora oggetto di critiche asperrime nel movimento. E passando ai decenni successivi, segue le pieghe successive che il discorso pubblico ha preso, prima, negli anni 80, con il tentativo di rimettere la legge e la parola del padre di tarverso alla coppia madre-concepito, poi, negli anni novanta, con il tentativo di contrapporre il diritto del feto a quello della madre, e infine, nel decennio ancora in corso, con il tentativo di eclissare la figura materna riducendola a un utero-contenitore sottoposto alla norma del diritto e della scienza. Tentativi non riusciti, o riusciti solo in parte. Ma che mostrano dell'aborto, di volta in volta, più il lato sintomatico delle nevrosi sociali che quello di un'esperienza umana femminile da far parlare e sapere ascoltare.

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